mercoledì 21 maggio 2008

AMAREZZA

Una ventina di persone di tutte le età, disposte a cerchio, sta discutendo del viaggio fatto in una sala piuttosto grande, povera con le pareti di cemento grigio non intonacato, inframmezzato da piccoli ganci sui quali si usano appendere le amache. Una stanza ridotta all'essenziale, nessuna mobilia, qualche finestra e molte sedie.

Come ultima tappa il gruppo si trova ora in una grande città, sull'oceano atlantico, una città piena di contraddizioni, una specie di porta dimensionale tra due mondi completamente differenti, quello della ricchezza e quello della povertà. Devono preparasi al ritorno, capire se quel che è stato vissuto nel mese precedente rimarrà dentro ciascuno come un sogno vago e lontano o se il buon contadino ha trovato della terra fertile nelle anime dei presenti dove piantare il seme della verità.

Ora il pastore sta parlando e tutti rimangono in silenzio ad assaporare le sue parole. Non sono le solite parole vuote alle quali ognuno è stato abituato fin dalla nascita, sono parole diverse, dense, cariche di significato, parole che riescono a toccare l'anima e farla vibrare. Vien voglia di mettersi a piangere dall'impeto delle emozioni che crescono e divampano senza chiedere il permesso nel petto dei presenti.


Nessuno ha mai immaginato che parole e silenzi così intervallati potessero avere tanta importanza, essere tanto solidi da poter far quasi male. La compostezza del mondo ricco occidentale, la falsa dignità che si è abituati ad indossare quotidianamente cade come foglie secche ad un vento impetuoso autunnale.

Così, lentamente, spontaneamente, i silenzi vengono riempiti dalle parole di ognuno che raccontano i propri pareri sul viaggio...

C'è chi le pronuncia con fervore, chi con cautela, chi con timidezza, chi con riluttanza...
Si susseguono parole fioche, leggere, parole tuonanti, parole sommesse o strappate tra le lacrime, tutti si esprimono, aprono il loro cuore, mettono i loro sentimenti su di un palco visibile a tutti.
I loro cuori si abbracciano, si toccano, si sussurrano.
Tutti sono contenti dell'esperienza fatta.

Il pastore è molto compiaciuto.

La sala ha l'aria densa di sentimenti talmente forti che sembra strano non si siano spezzate le pareti, il suono di qualche macchina che passa veloce nella via affianco e l'aria dell'estate circondano lontani questo spazio trascendente, vero, puro, sostanziale che si è creato.
La realtà dei sensi è lontana, solo il battito del proprio cuore e le parole dei compagni riportano alla mente che si è presenti.

Cala nuovamente il silenzio, tutti hanno parlato, mancano solo due persone all'appello.
E' il loro momento, tocca a loro parlare.

Ho la bocca impastata, il cuore ai mille.

Io sono uno di loro due.






Non ho parlato.
Non ho detto nulla.
Sono rimasto in silenzio.
Non ho condiviso ciò che provavo.

Perchè i miei sentimenti erano diversi.
Erano negativi.

Non mi sentivo di dire a tutti che il viaggio era stata una perdita di tempo, perchè così credevo in quel momento, ero arrabbiato con tutto e tutti. Non volevo dire ai presenti che non mi era piaciuto, che non sapevo cosa pensare, che mi sentivo completamente disorientato e non capivo me stesso, non capivo quello che provavo e non mi sentivo affatto bene. Ero nauseato e non sapevo perchè, ero nauseato e l'unica cosa che sapevo era che non mi piaceva affatto. Volevo scappare, sentivo che se avessi proferito parola sarei scoppiato a piangere, probabilmente mi serei reso vulnerabile, avrei detto la verità, che non ero contento, che non stavo bene, avrei deluso tutti, avrei fatto intravedere la mia pochezza.
Dopo quel viaggio la verità è che io stavo peggio.

Tutti dicevano che era stato bello.
Che stavano meglio, che erano cresciuti.
Che avevano imparato molto.
Visto molto.

Non volevo ammettere pubblicamente che io non avevo imparato nulla.
Non volevo piangere, perdere quel poco di dignità falsa che mi era rimasta.

E mi ci sono aggrappato con tutte le forze.
Testa bassa, labbra serrate, occhi fissi sul pavimento.
Sono diventato un riccio, la pelle è diventata una pelliccia di aculei e appena mi son sentito al sicuro, barriere alzate, difese attivate, ho alzato gli occhi per affrontare gli sguardi degli altri.

Erano pregni di indifferenza.

Guardo negli occhi il pastore.

I suoi erano colmi di delusione.


Solo un'altra volta nella vita mi sono sentito così piccolo, così perdente, così deludente, così privo di significato, così povero dentro.
Ho perso tutti i contatti con quei compagni di viaggio.
Ho ricominciato la mia vita da dove l'avevo lasciata.
Ho ricominciato che ero ancora più confuso di quando ero partito.
Ancora più arrabbiato.
Ancora più orgoglioso, superbo.

Forse dopo questi anni che sono passati devo ancora capire che razza di viaggio è stato. Ci ho pensato molto, ho riflettutto molto. Ma evidentemente non abbastanza, perchè spesso sogno di tornare indietro, in quella sala, e mi chiedo se avrei ora il coraggio di parlare. Oggi, dopo cinque anni, sento che potrei dire anch'io qualcosa di positivo, sento che potrei dire anch'io cosa ho imparato. O almeno cosa credo di aver imparato per quello che ci ho riflettuto.
Ma non posso.
Tornare indietro non è possibile.
Non posso cancellare quell'amarezza che anche oggi, quando ci ripenso, mi invade la bocca e la gola come il peggior infuso di radice di genziana.


E' brutto portarsi dietro dei rimpianti.

2 commenti:

Alex ha detto...

E' una storia vera? Intendo dire...ti è accaduto davvero?

Beh... compimenti Giacomo. Sei un essere umano.
Al momento non sapevi cosa dire? Credevi che il viaggio fosse stata stata una perdita di tempo? Eri incazzato?

Complimenti, di nuovo, sei un uomo.

Ti rimprovero solo di non aver detto a quel pastore, che ti guardava deluso, "che cazzo vuoi?"
E a quei MERDA che ti guardavano con indifferenza che, proprio in virtù di questo, in realtà, non avevano imparato un CAZZO. Perché c'è differenza tra imparare e credere di aver imparato.

"Tutti dicevano che era stato bello.
Che stavano meglio, che erano cresciuti.
Che avevano imparato molto.
Visto molto."

Tu no. Embé? Che minchia mi scrivi le poesiole di quello che vede MILLLLE MONDI diversi che si incontrano se dopo tu stesso ti metti a piagnucolare sul TUO MONDO che non è COME QUELLO DEGLI ALTRI. Sei un uomo, non una PECORA. Ma allora, di 'sti MONDI DIVERSI, ce ne sono alcuni migliori e altri peggiori? Chi è che decide quali sono Migliori e quali i Peggiori? Lo stato? DIO? Quel Pastore?

Perché ti vergognavi di ammettere che il TUO MONDO era diverso dal LORO? E tutta quella magia del:
"Ogni persona è un mondo,
ed ogni mondo è diverso
e si distingue dall'altro
perché ognuno possiede
un paio d'occhi diversi."
?

Ritorno a dire: CHI a deciso che i tuoi occhi fossero peggiori dei loro?

Giacomo ha detto...

Dunque, la storia è vera, vissuta di prima persona nell'agosto 2003, l'estate che molti ricorderanno come tremendamente afosa ero a Recife, Brasile, e faceva un caldo normale, meno che quà a quanto mi hanno riferito poi, a differenza di quanto uno possa pensare.

La magia della poesia è venuta l'altro giorno purtroppo, 2008, purtroppo nel senso che mi sarebbe piaciuta averla prima, o capire prima queste cose.

(e mi lusinga moltissimo che ti sia piaciuta così tanto)

Alla tua ultima domanda non so ancora rispondere...
Penso che sia un po' una sensazione, imbarazzo o insicurezza...

So che ti batti fortemente per il "diverso" nel senso dell'etichetta usata dai nostri contemporanei, mi sento vicino a te in questa lotta!
(e come puoi vedere, in quell'occasione ho "subìto" la paura che può provare uno che si sente "diverso" per qualche vera o non vera che sia ragione.)

Essere diversi ti fa sentire inadatto o speciale a seconda dell'umore e dell'autostima, 5 anni fa non avevo la metà delle palle che ho adesso, e sapendo quanto poche ne ho ora è tutto un dire.

Però intanto si fà quel che si può, si fa un po' di pulizia per esempio dei cosiddetti "scheletri lasciati nell'armadio"...